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domenica 15 agosto 2010




Io, te, gli stessi occhi
- a cura di Silvia e Matteo -


Christine e Léa Papin

"Una solitudine divisa in due parti del tutto uguali può dare vita a una dimensione splendida, oppure può distruggerla"


LEI

Christine Papin nasce in Francia nel 1905.
Non la aspetta una vita facile e questo le è chiaro da subito. Sua madre, affettuosamente chiamata Maman, vive nell'indigenza più nera e decide di mettere sia lei che la sorella minore nell'orfanotrofio "Buon Pastore" di Le Mans.
Christine non crede alla storia dell'indigenza. E' certa che la mamma abbia voluto sbarazzarsi di loro due, bambine senza alcuna colpa e bisognose di cure.
Fra le mura del collegio, attraverso lo studio e la preghiera, Christine e la sorellina creano un piccolo mondo a parte fatto di affetto e delicatezza. Christine, fra le due, è la più carismatica: è lei a detestare la mamma, è lei a prendere decisioni, è lei a dare consigli e ammonimenti. In qualche modo, riassume una figura autoritaria. Quasi maschile.

LEI

Non si può parlare di Christine senza parlare di Léa, e c'è un perché.
Bisogna chiedersi, in primo luogo, chi sia Léa.
Anche lei, destinata all'orfanotrofio in tenera età, vive in maniera remissiva, quieta e obbediente per diversi anni.
Le mura del "Buon Pastore" sono per lei solide barriere che la proteggono dal mondo, in più può contare sulla sorella maggiore, Christine, e sa che quest'ultima si prenderà cura di lei perché ha polso e temperamento.
Questa è Léa.
La proiezione più fragile e delicata della sorella. Lenta, di intelligenza un poco inferiore alla media; una specie di bambina introversa e mai cresciuta, spaventata da tutto e legata a Christine in modo viscerale.


C'è poi una terza sorella con cui il destino, se così si può dire, sarà meno clemente: il padre, alcolizzato, ne abuserà per anni a tal punto che la bambina, più piccola delle altre due, si ritirerà in un convento.
Non è dato sapere se, prima del ricovero in orfanotrofio, lo stesso trattamento fosse stato riservato anche alle altre due figlie. Il sospetto, però, è assai forte.

Bisogna spendere due parole per la cittadina francese di Le Mans degli anni '30. Località pacifica, tranquilla, in molti casi meta di vacanze. La borghesia vive nel lusso, fra salotti, tè pomeridiani e ristoranti chic.
Figure assolutamente immancabili nei palazzi borghesi sono le cameriere o, per meglio dire, le "serve". "Serve" è il termine esatto poiché all'epoca la cameriera è tenuta a sbrigare mansioni a tutto tondo: cuoca, addetta al bucato, sarta e addirittura impiegata nei lavori di fatica. Tutto ciò che occorre alla casa è compito della cameriera. Di solito venivano mandate a lavorare sulla base di referenze e alloggiate presso la dimora dei padroni.
E' ciò che avviene anche a Christine Papin quando lascia l'orfanotrofio e trova impiego presso la famiglia Lancelin, che le mette a disposizione una piccola mansarda in cui sistemarsi.
Ben presto Christine finisce preda di un'ossessiva inquietudine. Ha sempre condiviso tutto con Léa ed è preoccupata che la sorella, rimasta sola al "Buon Pastore", resti senza punti di riferimento. Decide così di sottoporre le referenze della giovane alla padrona di casa. Vuole che la assumano, perché vuole dividere il lavoro con lei come se fosse un gioco.
Madame Lancelin decide di accettare così anche Léa, poco più che ventenne, che raggiunge la casa di Rue Le Bruyére armata di una valigia, della sua freschezza e di una buona dose di volontà. La gioia di Christine è incontenibile: l'unica persona che le rappresenti una famiglia è finalmente accanto a lei.
Per entrambe inizia una grande avventura. Christine si occupa delle cucine: pranzo, cena e colazione, oltre al tè delle cinque e ai dolci da servire a Madame. A Léa è destinata la cura del guardaroba, inoltre dovrà spolverare e lucidare casa. Quest'ultima mansione è molto importante. E' una delle stravaganti paranoie di Madame Lancelin.

La famiglia Lancelin si compone di tre persone, ognuna delle quali a suo modo eccentrica.
Madame Lancelin è una donna irriverente, esplosiva, dal corpo gracile e dai capelli biondi. Colleziona cappelli esuberanti e non perde occasione per farsi notare. A differenza delle sue domestiche, è molto chiassosa, pronta alla battuta. Quando Madame è in casa, la sua presenza si avverte in ogni stanza: chiacchiera, ride, suona il piano e tiene la musica accesa. Sembrerebbe una padrona modello se non fosse per le sue fissazioni. Una di queste è indossare un guanto bianco con cui passare le superfici. Guai se trova tracce di polvere, la cosa la fa imbestialire al punto da sciorinare durissime reprimende, specie nei confronti di Léa che è più mansueta. Altre volte, Madame approfitta dell'educato sottomettersi della giovane per costringerla a mansioni svilenti: la fa mettere in ginocchio ai suoi piedi a raccattare oggetti da terra, come perline o carte di cioccolatino che pare faccia cadere apposta. C'è una forma di vanità assoluta, in Madame: un compiacersi di fronte alla bellezza dei suoi cappelli, al fasto della sua dimora e all'obbedienza delle sue domestiche. Un perfezionismo profondo e maniacale che rende le Papin due strumenti per la sua autoesaltazione. La casa deve essere perfetta, ogni cosa deve scintillare, ogni cosa deve essere meravigliosa perché Madame vive nel bello. Nei confronti di Christine non azzarda invece alcun rimprovero. La sorella maggiore non è come Lèa, è più scontrosa e accigliata. Si vocifera che, in alcuni casi, abbia risposto alle lamentele di Madame sbattendo i coperchi sulle pentole della cucina. Un tipo schivo, che lavora a testa bassa e non vuole noie. Così Madame si limita a scriverle bigliettini con consigli e sfoga i suoi nervi su Léa.

La figlia Genevieve Lancelin, invece, è una ventenne grassoccia e bruttina, senza alcuna personalità. Invidiosa di tutto, pettegola e curiosa, cerca di scimmiottare la madre pur disprezzandone i comportamenti rumorosi e poco raffinati. Ama ingozzarsi di cioccolato, la sua figura si arrotonda continuamente senza che lei ci faccia caso. Persino la madre cerca di aiutarla nascondendo i dolci dalla sua vista, ma lei sembra non ascoltare: li stana e si abbuffa, esattamente come un bambino in vena di dispetti. A Genevieve non piacciono le due governanti, le sono sembrate ambigue da subito e passa il suo tempo a spiarle, suggerendo alla madre i suoi sospetti: "Sono strane", le dice continuamente. La spaventano perché non parlano mai, ma soprattutto perché non alzano lo sguardo.

Il signor Lancelin, infine, è un avvocato. Un tipo riservato e chiuso che passa quasi tutto il tempo fuori casa per lavoro, o forse per scelta. L'uomo, infatti, è amante del silenzio e sia la moglie che la figlia glielo negano totalmente. Inoltre è succube delle due donne.

Per le domestiche, la vita in mansarda è una sorta di benedizione: solo in quel luogo si sentono libere, conversano, ricamano e pregano, alla larga da Madame e figlia. In questo modo, cominciano a guardarsi con occhi nuovi. Non sono più soltanto sorelle, ma anche alleate, complici, colleghe, coinquiline, una cosa sola.
Qui, la nostra storia cambia colore: si fa più scura, torbida, forse malata.
La cinematografia e il parere di alcuni psicologici ci danno un suggerimento, una tesi che la stessa Christine supportò nei suoi momenti confusionali. Entrambi i film "Sister my Sister" e "Les Blessures Assassines", sconosciuti in Italia, calcano la mano sul legame fra le Papin, un legame ossessivo che arriva a sfociare in qualcosa di più serio: coccole, carezze, notti passate a scoprirsi, infilando le mani sotto le vesti da camera, conquistando una nuova forma di piacere esclusivo, l'ennesimo "mondo a parte" in cui rifugiarsi. Secondo queste versioni, le sorelle erano diventate amanti e passavano molto tempo a letto, in mansarda, a dedicarsi ai piaceri carnali.
Vogliamo supportare questa tesi?
L'autrice di questo articolo non vuole. Vuole offrire un altro spunto di riflessione.
Consideriamo la mansarda stessa: un luogo angusto dove esse passano gran parte del loro tempo libero, dividendo un unico letto e tutti i momenti di libertà.
Consideriamo il padre che le ha segnate, sottoponendole a un'infanzia di bestialità, al successivo spostamento presso un orfanotrofio dove imparano a sopravvivere contando unicamente una sull'altra, alla casa dei Lancelin che è il loro banco di prova opprimente, la loro prigione dove nemmeno alla polvere è consentito addentrarsi.
Ecco, allora, è probabile che languisse in loro una sorta di assuefazione a quella folle reclusione "a due": abituate a spartire ogni momento e ogni spazio, si avvicinarono l'una all'altra, forse spinte da una curiosità naturale per due ragazze rispettivamente di ventuno e ventotto anni, che mai s'erano concesse a un uomo. Il loro era un primario bisogno d'affetto e non una lubrica perversione. Forse, l'ipotesi dell'omosessualità non è nemmeno fondata, ma soppiantabile con innocenti tenerezze.
Un'unica cosa è certa: erano diventate siamesi psicologiche.

Dai resoconti dell'epoca risulta che le sorelle passano tutta la domenica in mansarda, gettando Madame Lancelin in pasto ai dubbi: perché dormono fino a tardi? Come mai non si decidono a scendere? Perché al momento del loro arrivo impiegavano volentieri il giorno di libertà per fare passeggiate e ora, invece, stanno rintanate lassù, ridendo fra loro?
La stessa Genevieve sviluppa un occhio ancora più critico verso le sorelle: quel loro attaccamento ha qualcosa di morboso ed eccessivo. In casa se ne accorgono tutti.
Frattanto, nella mansarda è un periodo di grandi progetti. Léa ha paura. Teme i bruschi rimproveri della padrona di casa e sopporta a malapena la mole di lavoro: unico conforto, la sera, è spogliarsi e rannicchiarsi al fianco della sorella che la ama e la protegge. Così si comincia a pensare all'avvenire, si raccolgono i guadagni e si fantastica circa una fuga assieme. Christine è convinta che, con un po' di pazienza, la loro vita cambierà in meglio: Léa è rincuorata da questa illusione e, come sempre, pende dalle labbra dell'altra.
Paradossalmente, la prigionia in casa Lancelin non è delle più terribili. Madame è puntigliosa, Genevieve è maligna, ma la paga è buona e si tira avanti. In altre parole, tutto fila apparentemente liscio, basta armarsi di pazienza.

E' il 2 febbraio 1933 e Le Mans sta per conoscere un misfatto sanguinoso, un delitto incredibile che animerà la stampa nazionale per molto tempo.
Madame Lancelin e sua figlia escono per commissioni. Quella stessa sera, in un ristorante alla moda, hanno appuntamento con il signor Lancelin e il cognato.
Genevieve è molto chiara nel dare istruzioni a Léa: vuole che la camicetta di pizzo al suo ritorno sia perfettamente stirata. Guai se trova una piega. Léa sa che, quella settimana, il ferro da stiro si è già rotto una volta e teme che possa accadere di nuovo.
Appena le padrone escono di casa, le domestiche si mettono al lavoro.
Poco dopo, come previsto, il ferro smette di funzionare e genera un corto circuito. La camicia della padrona è rovinata, il ferro surriscaldato ha lasciato una bruciatura sulla stoffa e Léa ha una crisi di nervi. Christine cerca di calmarla invano: Léa balbetta che ha paura, è fuori di sé e trema come una foglia al pensiero del rimprovero che le toccherà subire.
"Per oggi il lavoro è finito", sentenzia Christine.
Non c'è più luce, la casa è immersa nel buio e non si può lavorare. Le sorelle fanno l'unica cosa che hanno imparato a fare ogni volta che si sono prospettate difficoltà all'orizzonte. Cercano riparo nella loro piccola mansarda, si infilano le vesti da camera e si mettono sotto le coperte assieme, consolandosi a vicenda e temendo l'arrivo della padrona. Hanno anche contato i soldi guadagnati, ipotizzando la fuga: non bastano, ed è impossibile scappare. Non possono che restare al buio, con le orecchie tese.
La padrona rientra, seguita dalla figlia. Subito nota la totale oscurità che regna nella casa. Lo vive come un oltraggio. Cosa stanno combinando quelle due? Perché hanno spento tutte le luci? Vogliono scherzare? Come si permettono un simile affronto sapendo che lei sta per tornare a casa e vuole trovare tutto in ordine e presentabile?
Sale le scale con passo di guerra. Già a metà scala ha iniziato a strillare all'indirizzo di Christine perché le spieghi cosa sta combinando in casa sua.
Proprio Christine, con le spalle più forti della sorella, si decide ad affrontarla: esce dalla mansarda con indosso la veste da camera, i capelli scomposti e sciolti sulla schiena, l'aria trasandata e sconvolta.
Non sappiamo cosa avvenga a questo punto. Si ipotizza che Christine cerchi di dare spiegazioni.
Sappiamo due cose: Genevieve è su tutte le furie per via della sua camicetta rovinata e Madame perde la calma completamente, scagliandosi in mille aggressioni verbali nei confronti di Christine.
Léa accorre sul posto a sua volta, richiamata dalle grida.
Forse Madame, alla vista della sorella minore anch'essa in una tenuta tanto disdicevole, le accusa apertamente e le licenzia. Dobbiamo considerare che all'epoca due donne seminude e spettinate, nello stesso letto, in una casa di buona fama, erano un vero attentato al senso della decenza.
Madame Lancelin scende le scale imitata dalla figlia, sembra decisa a tornare sui suoi passi. Poi, però, commette un errore fatale. Torna indietro e continua a urlare e insultare, restando a metà scala, col viso paonazzo. Christine e Léa, ormai, sono come cadute in trance: tremano a occhi sbarrati, si aggrappano l'una all'altra completamente sotto shock. Forse si sentono davvero scoperte.
Christine grida: "Gli occhi!", e si getta come una belva su Madame. Le artiglia le mani al viso e, con la pressione dei pollici, le cava entrambi i bulbi oculari.
E Léa?
Léa non ha mai fatto nulla da sola e segue a ruota tutto ciò che fa Christine. Si avventa con altrettanta foga sulla giovane Genevieve e ripete esattamente ciò che ha fatto la sorella.
Le padrone, accecate, rotolano per le scale e comincia un'orgia di sangue. Le sorelle Papin ripetono ritualmente le stesse gesta. Si armano di martelli, coltelli, brocche, tutto ciò che riescono a trovare. Inizia una carneficina: i corpi delle Lancelin vengono massacrati. Christine passa gli strumenti alla sorella e lei emula quanto vede e viceversa. E' una follia organizzata dove una scimmiotta l'altra come allo specchio. Gambe, mani, denti, addirittura i genitali. Nulla viene risparmiato.
La servitù finisce lì, sulle scale, in una pozza di sangue. Le sorelle, ora libere, tornano alle consuete occupazioni di loro spontanea iniziativa: puliscono le macchie di sangue, gli strumenti vengono lavati e riposti nei cassetti, tutto viene meticolosamente riordinato, come si richiede a due domestiche. Poi salgono in mansarda e si sfilano gli abiti sporchi. Nude, si infilano sotto le coperte e restano lì a lungo, abbracciate e terrorizzate.
Verso sera, Monsieur Lancelin, non vedendo arrivare le parenti alla cena, si reca a casa in compagnia del cognato. La trova immersa nel buio, fatta eccezione per una luce fioca in mansarda, come di candela. I due notano che ogni volta che si avvicinano alla porta di ingresso, la luce si spegne. Se invece si allontanano, si riaccende.
Sono quelle due. E' successo qualcosa.
Entrano in casa e si trovano davanti uno spettacolo raccapricciante. Gli inquirenti riferiranno che "uno degli occhi di Madame era nel bel mezzo di un gradino, a una certa distanza dal corpo". Le sorelle Papin vengono trovate nude nel letto, in stato confusionale.
Questa volta saranno costrette a separarsi.

Un processo controverso che terrà sulle spine tutta la Francia sta per avere inizio. Cominciano a serpeggiare le prime ipotesi sul delitto, condite di malizia, mentre Le Figaro urla a grandi titoli "Agnelli mutati in lupi", pubblicando i volti straziati delle Papin o i loro ritratti di famiglia: giovani, ricciute, con indosso abiti identici. Collera, passione, premeditazione, lesbismo. Le cronache dell'epoca iniziano un'opera di sciacallaggio attorno al caso. Forte è la connotazione sociale dell'affare Papin: esse rappresentano una rivolta politica, il servo che uccide il padrone opprimente, quasi un'icona.
Per Christin e Léa, invece, ha inizio un incubo. Non sono i giornali a turbarle, ma la nuova vita in carcere, separate.
Christin è vittima di allucinazioni e vaneggiamenti. Grida il nome della sorella e inizia a manifestare un serio disturbo psicotico: con la lingua traccia dei segni sul muro della cella; si rifiuta di mangiare, molte volte trascende in atteggiamenti osceni invocando la sorella e rivolgendosi a lei con espliciti inviti sessuali e altre volgarità. Alterna fasi del tutto sconnesse: da inappetente a delirante, da isterica a violenta, da pentita a oscena. In un'occasione le viene messa la camicia di forza perché viene sorpresa mentre cerca di togliersi gli occhi con i pollici.
Léa è vuota. Non ha più il suo modello, le hanno tolto tutto ciò che sapeva di se stessa. Se stessa era dentro Christine. Esegue gli ordini muta e zitta, non parla mai, è quasi catatonica.
Al processo, Christine rilascia affermazioni allucinate. Vuole sapere dov'era prima di venire al mondo, se era in una pancia. Vuole sapere se le Lancelin avranno modo di tornare sulla terra prendendo possesso di nuovi corpi. Sostiene di essere stata il marito di sua sorella in una vita precedente. Si addossa tutta la colpa, poi la spartisce con la sorella, poi se l'addossa ancora. Tiene gli occhi chiusi ogni volta che viene interrogata. In un'occasione si rivolge a sua sorella, trasecolata, e nel pianto la scongiura: "Dì di sì! Dì di sì!".
Léa non ha più forze. Non riesce a reagire di fronte a un simile dramma. In aula, si limita a guardarsi attorno sperduta e cerca ancora di imitare la sorella, in modo fiacco e poco convincente. Nemmeno lei crede più a quella storia.
Solo su un punto sono d'accordo entrambe: il padre ha abusato di loro, la madre le ha dimenticate, il mondo ha riservato loro solo squallidi maltrattamenti e questo spiega tutto. Deve spiegare tutto. Quando viene chiesto a Christine se abbia intrapreso con la sorella una relazione omosessuale e incestuosa, lei risponde di "amarla come si ama una sorella".
Ma le loro strade si divideranno ugualmente. Christine sarà riconosciuta come colpevole ed esecutrice materiale del crimine, verrà condannata ai lavori forzati e finirà i suoi giorni in una clinica psichiatrica. Alla lettura del verdetto cadrà in ginocchio e, da quel momento, non farà più il nome di Léa. In clinica, la sua fragile precarietà mentale degenererà del tutto: passerà la vita a ripetersi "Sono una buona a nulla". Quando porteranno Léa a visitarla, non la riconoscerà nemmeno.
Léa sarà scarcerata per buona condotta e tornerà a vivere dalla madre. Spenderà il resto della vita facendo la domestica a Nantes. Nel 1982 verrà diffusa la notizia della sua morte.

Nel 2000, il documentario di Claude Venutra "Enquete Des Soeurs Papin" riporta a galla quel trucido caso in bianco e nero.
Léa non è morta, ma vive in un ospizio in Francia e ha 89 anni, è semiparalizzata e quasi incapace di parlare. Alcuni giornali francesi riportano una sua breve intervista in cui sostiene di "conservare ancora foto sue e di Christine, foto assieme, foto della sorella, foto in cui erano belle e felici".
Dopo l'apparizione televisiva, non si hanno più avuto notizie di Léa Papin. Rimane da chiedersi se certi inspiegabili amori siano davvero destinati a durare per sempre.


Profili psicologici

Il caso, da un punto di vista dell'analisi psicologica dei protagonisti, è assai simile a quanto spesso avviene nelle coppie assassine composte da un uomo e una donna. Nella fattispecie, abbiamo un elemento "dominante" (che di solito è maschile), Christine, probabilmente affetto da disturbi paranoidi, e un elemento, Léa, talmente di basso profilo da rifiutare di crearsi una propria identità personale. Léa, infatti, imita la sorella, ne assume la stessa condotta, la cerca quando è in difficoltà, ne imita il look. L'atteggiamento di Léa è da attribuirsi a una considerazione del proprio Io che rasenta la nullità ed è anche questo a farle maturare il bisogno di "fondersi" in un'altra persona che, ai suoi occhi, è forte e carismatica.
In entrambi i soggetti sono evidenti gli strascichi di una vita senza sani modelli di riferimento, minata fin dall'infanzia da stupri e abbandoni e proseguita senza momenti felici (è probabile che in orfanotrofio abbiano subito ulteriori violenze). La difficoltà delle due a instaurare rapporti relazionali - se non a livello superficiale - è evidente ed è anche questa a spingerle a rifugiarsi in un mondo fantastico: la necessità di fuggire da una realtà malvagia, verso mete utopiche dove avrebbero potuto avere un ruolo diverso da quello in cui si trovano a vivere (non è un caso che Christine, una volta arrestata, giungerà a sovrapporre l'irreale al reale, dicendo di essere stata, in vite passate, il marito della sorella).
L'omicidio (lo si ricorda, avviene dopo aver subito un licenziamento) è frutto della consapevolezza del fallimento personale di cui Christine era convinta da sempre e che cercava di scacciare fantasticando su fughe e amori impossibili. Il comportamento di Léa, invece, è da addebitarsi all'influenza negativa della sorella di cui era in totale balia e che vedeva come modello da emulare. Tale tesi viene confermata anche dalla diversa fine cui sono andate incontro le due e dai loro diversi comportamenti successivi all'arresto.
E' altresì importante sottolineare come Christine adorasse l'essere il punto di riferimento della sorella, perché ciò la faceva sentire al centro dell'attenzione di qualcuno e dava lei un senso di importanza.
Piuttosto facile da spiegare l'overkilling (l'accanimento sui cadaveri) compiuto dalle due: esso, difatti, è il risultato di una rabbia repressa poi esplosa in modo da giungere a depersonificare le vittime, scaricando ogni frustrazione e ogni odio, alla stregua di una ribellione dalla triste realtà che le circondava (l'ennesimo tentativo simbolico di fuga).

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